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Africa, perchè Aids e povertà sono i frutti di un saccheggio



Uè l'Europa rivista - inserto di Liberazione

Se tutto procede come previsto non troverete titoli a nove colonne sui principali quotidiani. Una volta, almeno in questa data, c’era grande fermento mediatico. Ultimamente l’argomento non tira più. La disponibilità a partire dalla metà degli anni ’90 di farmaci anti-retrovirali che consentono di cronicizzare la malattia hanno generato la falsa illusione collettiva che - almeno nei Paesi ricchi - la battaglia contro il virus fosse vinta. E si è abbassata la guardia. Soprattutto in termini di campagne informative e di prevenzione. Il risultato sull’immaginario dei giovani europei è devastante: uno su due, secondo l’Eurobarometro, pensa - l’ultima volta succedeva venti anni fa! - che ci si possa infettare usando lo stesso bicchiere o la stessa toilette di persone sieropositive, donando loro del sangue o curando pazienti affetti da Aids.

In Africa i ragazzi e le ragazze sono mediamente più informati ma il mancato accesso gratuito alle cure, a causa dei brevetti farmaceutici imposti dalle multinazionali di settore tramite l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), impedisce di fare veri progressi nella lotta alla pandemia. Secondo le ultime stime dell’Unaids, l’agenzia dell’Onu sull’Hiv/Aids, la regione subsahariana continua ad essere quella più seriamente colpita. In quest’area vivono 22,5 milioni di soggetti sieropositivi (il 68% del totale mondiale), nonché un terzo di tutte le persone infettate e di quelle morte per Aids a livello globale. Nel 2007 si sono registrati circa 1,7 milioni di nuove infezioni da Hiv. Una riduzione importante dal 2001, quando i nuovi contagi erano quasi il doppio, ma non significativa sulla strada che dovrebbe portare entro il 2015, secondo gli Obiettivi del Millennio fissati dalla Nazioni Unite nel 2000, all’arresto e alla riduzione della diffusione del virus. Anche perché nello stesso periodo i casi di Hiv in Europa orientale e in Asia centrale sono aumentati di oltre il 150%. E soprattutto perchè il quadro epidemiologico 2007 fornito dall’Unaids risente di una profonda revisione delle tecniche di raccolta dati  che ha fatto, per esempio, scendere il numero complessivo delle persone sieropositive nel mondo da 39,5 a 33 milioni.

Eppure l’Africa si trova più che mai al centro della geopolitica mondiale. Se gli Stati Uniti puntano alla militarizzazione del continente, a difesa dei giacimenti petroliferi e gassosi del Golfo di Guinea e dei bacini del Chad e del Sudan attualmente sotto influenza cinese, l’Europa ha scelto di scommettere sul continente nero come nuova frontiera per lo smercio dei propri prodotti e servizi.

Non avendo ancora un esercito comunitario (per fortuna!), la Ue si affida alle banche e ai grandi capitani di industria per la conquista del continente. Sono loro che da sempre spingono per la chiusura dei negoziati sugli Epa, gli accordi di libero scambio con i Paesi Acp (Africa, Caraibi e Pacifico), fra cui quelli africani sono l’assoluta maggioranza. La scadenza per la firma di questi accordi è il 31 dicembre 2007 ma grazie alla  mobilitazione dei movimenti sociali africani e internazionali, al supporto tecnico offerto dalle Ong e – non da ultimo - al lavoro paziente ma incalzante della vice-ministra Sentinelli in sede Unione Europea, tutto è al momento in stand-by. Nell’ultimo incontro del Consiglio Affari generali e Relazioni esterne, riunitosi a Bruxelles il 20 e il 21 novembre scorsi, i governi europei hanno dovuto prendere atto che ad oggi la previsione di una liberalizzazione completa dei mercati Acp, da quelli dei prodotti fino a quelli più redditizi di servizi e investimenti, va ridimensionata e ci si dovrà accontentare di procedere in due tempi: prima si discuterà di come ampliare gli scambi dei prodotti senza danni, poi si vedrà. Un duro colpo per il Commissario europeo al commercio, Peter Mandelson, che nei mesi scorsi aveva già dovuto incassare l’altolà del Parlamento Europeo sull’inserimento dei “Trips+” nei testi degli accordi Epa. Di cosa si tratta? Dell’inasprimento delle già ferree regole sui brevetti imposte dall’Omc che, come detto sopra, impediscono l’accesso alle cure a milioni di pazienti sieropositivi nel Sud del mondo.

Il peggio però può solo essere rimandato: la natura commercialmente aggressiva degli Epa non è stata messa in discussione da Consiglio e Commissione. Il libero mercato che crea magicamente sviluppo  per gli “ultimi della terra” continua ad essere un dogma. E in una fase storica in cui i negoziati multilaterali in sede Omc segnano il passo, il ritorno agli accordi bilaterali, con singoli Stati o con blocchi regionali, è obbligatorio.

Ecco perché la presidenza portoghese dell’Ue e la Commissione Barroso puntano così tanto sul II vertice Africa - Unione Europea annunciato per l’8 e il 9 dicembre a Lisbona. L’ incontro farà seguito al primo vertice, tenuto nel 2000 in Egitto, al Cairo; avrebbe dovuto svolgersi già nel 2003 ma ha subito un cospicuo ritardo a causa delle sanzioni imposte allo Zimbabwe e delle polemiche sull’eventuale presenza del presidente Robert Mugabe.

A quattro anni di distanza è ancora il vecchio dittatore a tenere banco. Il Portogallo si trova preso tra due fuochi. Da una parte i Paesi africani che più volte hanno messo in chiaro che se Mugabe non sarà della partita, nessuno di loro raggiungerà la capitale lusitana. Dall’altra la Gran Bretagna e i Paesi Scandinavi che sono contrari alla sua presenza perché accusato di gravi violazioni dei diritti umani. Pur senza nulla togliere alla portata simbolica della questione, l’attenzione che i media stanno riservando alla querelle diplomatica (oppure alla scelta del leader libico Moammar Gheddafi di alloggiare in una tenda beduina piuttosto che in uno degli alberghi ufficiali del summit!), la dice lunga sugli esiti possibili di questo vertice. Nonostante le parole d’ordine ufficiali siano “sviluppo e diritti umani”, non c’è nessun dibattito reale che precede il vertice e soprattutto nessun segnale di inversione di tendenza nelle relazioni tra Unione Europea e Africa.

Come gli ultimi due Forum sociali mondiali (quello di Bamako nel 2006 e di Nairobi nel 2007) ci hanno insegnato, le richieste all’occidente non riguardano solo la restituzione del maltolto negli ultimi due secoli, bensì la rinuncia a proseguire nel saccheggio sistematico di tutte quelle risorse naturali e umane capaci di traghettare l’Africa verso il destino che vorrà scegliersi. Tradotto in pratica ciò significherebbe: cancellazione totale e incondizionata del debito; riforma radicale delle organizzazioni finanziarie internazionali (Fondo monetario e Banca mondiale) e dell’Organizzazione mondiale del commercio; sovranità alimentare e accesso universale ai farmaci salvavita; potere decisionale sulle  politiche economiche e tariffarie; conservazione e valorizzazione dei beni comuni come l’acqua, la terra e l’energia.

Non serve altro ai popoli africani. Ma questi argomenti, purtroppo, non saranno in agenda a Lisbona.






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