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India: qualche domanda a Prodi e Montezemolo



Carta, I diritti sacrificati al boom economico


Alleanze di grandi imprese nel business di “fascia alta”, agevolazioni a piccole e medie imprese finalizzate all’export e alla creazione di joint venture, potenziamento della presenza e dell’azione delle banche. E’ questa la “road map” tracciata da Romano Prodi al termine della missione d’affari svoltasi in India dal 10 al 16 febbraio scorso e che ha visto protagonisti, oltre il premier e i ministri Bonino, Di Pietro e Bindi, il presidente di Confindustria Montezemolo e più di trecento imprenditori. Un ottimo risultato per tutti coloro che negli ultimi mesi avevano osannato l’emergente “capitalismo d’assalto” dell’India, ormai universalmente metabolizzata come seconda futura superpotenza mondiale, ma che non sembra tenere in alcuna considerazione i costi sociali e ambientali del “miracolo indiano”.

Eppure Calcutta, una delle principali tappe della missione italiana, ne offriva un esempio paradigmatico. A pochi chilometri dalla capitale del Bengala occidentale si trova infatti una terra di 1.200 acri abitata da circa 22 mila persone che dall’agricoltura ricevono il loro unico sostentamento. La sua fertilità è testimoniata da un output agricolo dai tre ai cinque raccolti all’anno; ma da settembre ad oggi la zona si è trasformata nel campo di battaglia di una dura resistenza contadina contro l’esproprio forzato dei terreni a favore del gigante automobilistico Tata Motors. L’area di Singur, dopo l’escalation degli scontri che da settembre ad oggi ha provocato almeno sette morti, centinaia di feriti e arrestati, è stata di fatto isolata e il governo vieta l’ingresso a tutti coloro (sindacalisti, intellettuali e addirittura rappresentanti di Amnesty International) che si sono schierati a favore delle rivendicazioni contadine. La notizia si potrebbe considerare ‘remota’ e senza alcun interesse per noi italiani, senonché l’industria implicata in questi fatti di sangue è risultata essere il nuovo super-partner indiano della Fiat che, grazie al famoso progetto dell’auto “low-cost” di Tata, vorrebbe riposizionarsi sul mercato asiatico.

Le domande a Prodi e Montezemolo sorgono spontanee. L’industrializzazione dell’India (ammesso che questo sia il futuro scelto dai suoi cittadini) può avvenire nel rispetto dei diritti civili e sociali dei popoli in favore dei quali tale ricetta economica dovrebbe espletarsi? Il rilancio globale della Fiat può prescindere, da parte dei suoi partner commerciali, dalla pratica del dialogo democratico con istanze locali portatrici di un modello di società agricola alternativo a quello industriale ma con pari dignità? Perché il governo italiano non ha ritenuto opportuno chiedere il pieno rispetto dei diritti dei contadini di Singur al governatore del Bengala occidentale, Buddhaded Bhattacharjee? Non sarebbe il caso di riflettere sulle implicazioni, comprese quelle ambientali, di questa duplice partnership strategica: Italia-India, Fiat-Tata? O vogliamo continuare a dormire nel ‘globalismo sonnambulo’ così energicamente deprecato da Giovanni Sartori nel suo editoriale del 7 febbraio scorso sul Corriere? Mi associo, per una volta, alla sua chiusa: “Niente più balle. I sonnambuli si devono svegliare. E la Cina non sarà l’Eldorado”.
Men che mai l’India, con una popolazione agricola di 700 milioni di anime e con circa la metà dei propri cittadini che ancor soffrono la fame. Moltitudini che chiedono di poter scegliere autonomamente tempi e modalità per un' eventuale transizione verso la cosiddetta ‘modernità’.







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